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La ragazza della band (Racconto)

Aggiornato il 21/05/2009 00:00 
 

Con un'ultima potente rullata il “secco” – così chiamavamo il nostro batterista -, si alzò in piedi e, buttando in aria i bastoncini per riprenderli al volo con una sola mano, si girò di scatto per esaminare con eccitazione il display del suo pregiato orologio da mercatino cinese che come sempre e con tanta cura appoggiava sul davanzale della finestra dietro di sé, quindi, con una certa noncuranza, quasi farfugliando proclamò:

“a minuti arriva una ragazza, la Voce femminile per il nostro gruppo. Un gran pezzo di... e sentirete che Voce.” Concluse girando gli occhi al soffitto mentre la punta della Lingua gli inumidiva le labbra protese in una smorfia assai significativa.

“Ma dai, Cristiano, cosa dici...” Esclamai sorpreso.

Invece, facendo eco alle mie poche parole, nella ripida scala a chiocciola ecco un energico rimbombo di tacchi sui gradini di rovere che in modo chiaro e distinto accompagnano il suo arrivo ed immediatamente, tra i due lembi della pesante tenda che assai poco serviva ad attutire l'assordante casino dei suonatori, si affaccia una ragazza, uno schianto di ragazza dal fisico slanciato con i lunghi capelli rossi che si spingono fin sotto l'ombelico.

L'amico fece per presentarla ma lei, senza alcuna esitazione disegnò una virgola nell'aria con la destra e sorridendo enigmatica avanzò tranquilla di un paio di passi per dire:

“Ciao a tutti. Io sono Diana.”.

Nella piccola ingombra soffocante cantina per qualche istante regnò un silenzio impalpabile, carico di significati, mentre il testosterone galoppava e tutt'e quattro, con occhi sgranati, la scrutammo lussuriosi per godere con piacere l'eccezionale intrusione nel nostro regno riservato, un regno di baldi maschi visionari.

Superata la sorpresa iniziale, respirando profondamente e guardandola bene, dissi a Cristiano:

“Ma è la ragazza arrivata qui da poco che abita la casa color giallo limone appena fuori paese... La casa di quella vecchia che chiamavano Marlene, la ballerina dei falò.”.

Con la testa mi accennò di sì. Da quella sera la nostra “Shabby Band” ebbe la sua star.

Man mano che i giorni passavano, prova dopo prova, serata dopo serata e passeggiata dopo passeggiata che organizzavamo con la scusa di accompagnarla a casa, m'innamorai ardentemente di lei; tanto appassionatamente che vivevo per lei, solo di lei e dopo sei mesi, preso dal fuoco che brucia ogni riflessione, dando fondo a tutti i miei poveri risparmi di Studente squattrinato, la legai con un prezioso anello di fidanzamento.

Ci vedevamo proprio ogni giorno: le prove serali con la Band, quelle con il gruppo della parrocchia dove in coro cantavamo melodie spesso prese dai blues e dai gospels per rallegrare – come diceva il buon Don Piero – le “Sacre celebrazioni” e qualche serata tutta per noi, erano il collante che una breve telefonata, talvolta anche più di due nella giornata se il suo principale era assente, ci legavano sempre più.

Diana veniva dalla provincia di Padova ed abitava da sola nella casa che era stata di una sua nonna: una casetta nascosta tra siepi di sempreverde, ad un sol piano, isolata e solitaria nel mezzo del suo semplice giardino di prato all'inglese che le correva tutt'attorno; una casetta davvero unica con quel color limone così intenso, sfacciatamente brillante che proprio non poteva passare inosservata. Per di più aveva sul retro quell'enorme, altissima magnolia che, oltre a sembrare un gigante nell'atto di togliere il respiro ad un insetto, era proprio fuori posto, un qualcosa in più che disturbava l'insieme di quel quadro naturalista.

Dal suo arrivo tra noi Diana lavorava come segretaria da un geometra: un antipatico borioso assai poco considerato in paese ma che, e questo è molto importante per chi ne ha bisogno, pagava bene e con puntualità, un tipo che gironzolava gongolante dentro ad un grosso Suv nero o sfrecciava a cavalcioni di una Ducati rossa. Pur non essendo un bel tipo, il fatto di avere buone possibilità finanziarie, un appartamento dove potersi rifugiare, e quei due seducenti mezzi di trasporto, faceva girare la testa alle ragazze e queste, per sentito dire, di certo non gli mancavano...

Diana, oltre ad essere un'ottima segretaria era anche una perfetta Donna di casa. Si arrangiava in tutto: faceva le pulizie, preparava i pasti, lavava, stirava e quando non era impegnata a cantare passava le sere con me.

Talvolta cenavamo assieme nella sua piccola Cucina dove mi muovevo con circospezione per non guastare l'ordine e il lindore che vi regnavano. Non voleva mai uscire:

“Già quattro sere la settimana devo essere fuori per le prove,” diceva, “e perciò quando posso, me ne resto in casa a godermi le mie cose, a sbrigare i piccoli lavori, a preparare per domani, a tenere in ordine... Il giorno è fatto di ventiquattro ore, lo sai bene, ed io ho anche bisogno di dormire e non di occuparle tutte per i lavori e gli impegni...

E poi dobbiamo risparmiare per sposarci presto.”.

Piuttosto alta, con un corpo perfettamente rispondente ai canoni della bellezza, un viso ovale e un Naso sfuggente che copriva la piccola Bocca sorridente e sensuale, la fronte spaziosa e gli occhi verdi penetranti e seduttori che dominavano il quadro incorniciandolo con i lunghi morbidi capelli color rame, striati da naturali sfumature più chiare che sfiorando un seno sodo e pieno si muovevano ad ogni suo passo o movimento, mi faceva impazzire. In più di qualche circostanza credevo veramente d'impazzire, mi veniva l'impulso di saltarle addosso, di farla mia e solamente con un grande, doloroso, insopportabile sforzo riuscivo a frenare la mia agitazione, a raffreddare il mio calore, a bloccare le mie plausibili voglie.

Aveva una Voce morbida, delicata, poco potente ma dolce ed inebriante che in certe vibrazioni ricordava una Cantante francese degli anni sessanta, una giovane Cantante che interpretava l'amore dei suoi coetanei...

Quando cantava facendo scorrere le sue lunghe dita su e giù per la Tastiera della chitarra, suonata con una grazia tutta sua, assai spesso le sue palpebre socchiuse si restringevano e riaprivano per seguire il ritmo e la sua mente rincorreva immagini, fantasie e sogni... In quei momenti il suo corpo abbandonato con noncuranza, assecondava con lievi vibrazioni il movimento dei lunghi capelli che le accarezzavano le mani.

E ancora, se presa da un'emozione particolare, si fondeva con l'armonia dei suoni buttando la testa all'indietro ed allora, come un'immaginaria veste dei futuristi, i capelli le coprivano la parte superiore del corpo dal quale usciva un vago e nostalgico fil di Voce.

In quei brevissimi intervalli di tempo la osservavo incantato, quasi trattenendo il respiro per non distoglierla dal suo viaggio nel profondo dell'anima, dei sentimenti più intimi e genuini, la osservavo ed anche le mie palpebre, mosse dall'istinto e dalla condivisione, si univano alle sue mentre le labbra serrate a stento trattenevano la Voce... Che bellezza... Che bellezza, Diana!

Altre volte, stretti sul divano, cantavamo melodie che la sua Voce e partecipazione magnificavano in modo particolare: mi scuoteva l'anima e la voglia di possederla mi prendeva con tutta la sua forza. Insoddisfatto e turbato, in quei momenti mi consolavo assaporando il profumo ed il sapore della sua morbida Pelle. C'era da impazzire, davvero.

Ma non succedeva mai niente perché così ci eravamo promesso.

“A diciotto anni,” mi disse proprio in uno dei primi incontri, “mi son data anima e corpo ad un ragazzo che dopo due anni mi ha lasciato in un'immensa desolazione. Ne son passati altri due ed adesso ho te. Non voglio arrivare a quello che ho provato allora. Prima del matrimonio più nessuno...” E fu così.

Nelle serate primaverili ed estive, nell'autunno fiorente di colori, ci dedicavamo a lunghe passeggiate sui colli e soltanto quando la notte calava rientravamo in casa.

Le domeniche d'inverno invece, se la mamma mi concedeva la sua utilitaria, andavamo in montagna per fare delle interminabili camminate sulla neve con le ciaspole e la sera, dopo una cena ristoratrice poiché, per risparmiare, durante tutta la giornata avevamo mangiato panini e bevuto acqua, ci buttavamo nel suo morbido divano a riempirci di coccole e una volta di più lottavo coi desideri più forti e naturali che si accendevano in me.

Una volta, poi, andammo al mare e corremmo sfrenati sull'acqua bassa e lungo la battigia: la spiaggia era quasi deserta e dopo una buona ora di corsa ci buttammo accaldati sulla sabbia per abbracciarci estasiati. Quanti baci, quanti desideri, quanto amore, Diana, e tutto rimandato ad un dopo che sempre più mi stava stretto.

Passarono i giorni ed i mesi. La seconda primavera di fidanzamento, sentendoci maturi per il passo decisivo, frequentammo lo specifico corso per fidanzati e quasi contemporaneamente il professore che mi seguiva, in un grigio mattino, tipicamente padano, mi comunicò che a luglio potevo discutere la tesi, quella tesi che da mesi stavo elaborando, scrivendo e riscrivendo con ansia e apprensione.

Entrai in fibrillazione, una di quelle agitazioni che si vedono ad Occhio nudo e che mi prostrò per qualche giorno, un'ansia che purtroppo mi tolse il sonno di troppe notti.

Che splendida primavera era quella: un tempo magnifico, delle sere meravigliose ed io, dopo le prove o le fugaci visite a Diana costretto a restare chiuso in casa per finire il Lavoro al quale dedicavo ormai anche buona parte della notte. Difatti, con una certa frequenza mi svegliavo di soprassalto e mi buttavo forsennato sulla Tastiera del PC e scrivevo ciò che mi sembrava di aver tralasciato, dimenticato o non puntualizzato a dovere.

Il tempo passava e giorno dopo giorno m'assaliva un'angoscia sconosciuta: ero sempre più distratto, nervoso e la testa mi sembrava vuota, sempre più vuota...

Che sere e che notti, che notti e che giorni, mio Dio!

Una sera, finita la riunione in parrocchia prima del previsto, passai improvvisamente da Diana. Suonai e poco dopo risuonai nervoso. Passati pochi minuti venne ad aprirmi con una tuta viola infilata sulla Pelle nuda. Contrariata e confusa disse brusca:

“Cosa succede? Che fretta c'è, mamma mia, non mi permetti neanche di infilarmi le ciabatte...” Poi, gesticolando un po' teatrale riprese con il suo tono normale:

“Sto lavorando col principale, sai, ci è arrivata tra coppa e collo una cosa urgente che dobbiamo presentare domani, una specie di valutazione su un immobile che ha verificato oggi ed allora mi ha accompagnato a casa e stiamo sistemando tutte le carte e le Foto che deve presentare.”.

Lì per lì mi scusai educatamente e me ne andai. Anch'io ero contrariato, eccome, pensavo di stare con lei ed invece mi aspettava la solita routine, la mia quotidiana compagna, la tesi.

Il mattino seguente chiamò prestissimo dicendomi: “Il capo ha la luna, quando posso chiamo io.”.

Non capivo il suo avvertimento, non era mai successo una cosa simile. Per abitudine, infatti, prima di telefonare le mandavo uno sms e soltanto dopo il suo ok mi permettevo di chiamarla.

“Beh, probabilmente quella pratica richiede un certo impegno” mi dissi ed aggiunsi:

“E già, si sa, I capi hanno sempre Ragione...”.

Nei giorni seguenti notai che Diana era sempre più nervosa, seccata, fredda.

Qualche sera, poi, non si presentò alle prove della band e con un brevissimo sms sul mio telefonino si scusava per la sua impossibilità a parteciparvi. Alle volte, quando finalmente riuscivamo a stare un po' insieme, in certe circostanze anche nel bel mezzo di un discorso qualunque - come se il suo pensiero fosse fisso su quella scelta difficile -, saltava fuori dicendo:

“Se trovo, cambio Lavoro. Mi stressa, mi stressa...

Mi spiace però perché paga bene!” E si riprendeva con un sospiro ed un sussulto.

Correvano i giorni: aprile non lo ricordavo più, maggio era volato, di giugno non me n'ero nemmeno accorto ed il 26 di luglio s'avvicinava a Cavallo di un razzo...

Con Diana ci incontravamo poco, di sfuggita e con la Band ed il gruppo della parrocchia una sola volta la settimana, volevo infatti prepararmi bene per la discussione della tesi.

Una sera, Teso più del solito - mancavano a quel punto cinque giorni alla laurea -, per distendere i nervi andai d'impulso da Diana: il cancelletto era socchiuso e la siepe di sempreverde nascondeva la Ducati rossa...

Avanzando senza far rumore, camminando non visto sul prato inglese, m'avvicinai alla finestra del salottino: sul pavimento indumenti sparsi alla rinfusa e sul divano Diana col principale ardentemente impegnati in un intimo amplesso.

Mi si gelò il sangue...

Per un istante, mentre girava il viso per staccare la sua Bocca da quella di lui, il mio sguardo incrociò i suoi languidi occhi soddisfatti.

Allora, senza alcun riguardo me ne andai sbattendo il cancelletto.

Dopo un lungo, pazzesco girovagare senza meta nella notte, facendo piano per non disturbare la mamma, rientrando a casa all'alba radunai i suoi bigliettini, le lettere, i Cd, tutto ciò che le apparteneva o la ricordava e buttai ogni cosa in una scatola, poi mi sdraiai sul letto.

Un paio d'ore dopo, con gli occhi fuori dalle orbite e senza una parola d'Accompagnamento, le inviai il pacco ed entrai in chiesa per un sentito “grazie”...

Il telefonino squillò, fu sommerso dagli Sms col numero di Diana, ma da parte mia non vi fu mai una sola risposta.

Il tradimento, e che tradimento, per me non è proprio una cosa che si possa comprendere e tanto meno perdonare.

In paese non si vide più Diana e nemmeno il suo scooter nero davanti all'ufficio del geometra: Sparita così com'era arrivata.

A distanza di tempo, lo dico con tutta sincerità, di ciò che vissi nella casa color limone mi rimane soltanto il ricordo del suo assurdo ma straordinario Colore senza uguali.

Solo quello, niente più.

Domenico Canale

(Racconto apparso su Biblos Teller 1)