La distrazione (Racconto)
Jesse Rossi Aggiornato il 11/05/2009 00:00Di sabato sera era un problema prendere il treno per il ritorno a casa.
Non c'era ancora l'abitudine alla settimana corta e la gente si accalcava sui marciapiedi della stazione, sotto le pensiline, accanto ai treni stracolmi, dopo aver atteso ancora nella mattinata di sabato alle consuete occupazioni che li portavano nella grande città dalle province limitrofe e dalle altre regioni.
Altri si ricongiungevano ai parenti per una domenica di riposo e di festa.
Tutti erano carichi di bagagli e di borse, con un gioioso andirivieni sul marciapiede di partenza.
Per chi lo sapeva e comunque per il traffico che si formava a Firenze per Bologna c'erano due carrozze in attesa sul binario accanto, che venivano aggiunte all'ultimo momento.
Ma la gran massa non abituata, come lo ero invece io, a quell'appuntamento, sostava sul marciapiede affollatissimo e non sapeva che lì accanto c'erano poltrone vuote e pulitissime, pronte ad essere prese d'assalto mezz'ora dopo.
Quella sera nello scompartimento eravamo già in quattro tutti assorti nei nostri pensieri, decisi a non parlare, indifferenti gli uni agli altri, desiderosi di rimanere il più possibile in silenzio.
I due vicini al finestrino certamente erano arrivati in momenti diversi.
Uno di media età, forse un Uomo d'affari, aveva già ripiegato per tutti i versi il suo Quotidiano, e abbandonatolo poi vicino a sé, stava sfogliando lentamente una Rivista.
Un'aria di efficienza, di distinta signorilità gli aleggiava tra i sopraccigli corrugati e si indovinava nelle pieghe della Bocca atteggiata a distacco.
Sembrava soddisfatto della giornata trascorsa e si mostrava di una sobria e contenuta eleganza nell'uso del gilè (allora non più consueto) e nella postura delle gambe allungate con noncuranza fasciate da bellissime calze lunghe di lana e da pantaloni dalla piega impeccabile.
Il pomeriggio era inoltrato e nella carrozza in sosta fredda e senza luce elettrica, il riverbero della striscia di cielo tra le due pensiline si stava rapidamente spegnendo e il distinto signore fu costretto a smettere di Leggere.
Guardò un attimo noi tre, seduti agli altri angoli e ostentatamente si mise a osservare fuori dal finestrino tutta la gente che si accalcava tra i carretti dei giornali,dei panini, dei portaborse.
Il suo dirimpettaio si stava piegando il cappotto e ancora ansimante si allungava per spingerlo sulla reticella.
Era più giovane, vestito con noncuranza, quasi sciatto, e si lasciava andare sul sedile con abbandono, senza reticenza, come uno che tutti i giorni fa lo stesso tragitto in treno, i gesti precisi, nessuna titubanza.
La sua attenzione era per noi tutti perché effettivamente uno che viaggia tutti i giorni diventa così di casa sul treno che considera ogni persona del suo scompartimento come ospite di casa sua.
E' di solito pronto a dare informazioni su tutto, sui movimenti, gli orari, la composizione dei treni, le coincidenze… “oggi il rapido delle 17 da Pisa ritarda. Come faremo con la coincidenza per Roma…ecco se ne vanno… si arrangeranno. Ne prenderanno un altro, già, c'è quello delle 19.20. ma così a che ora arriveranno! Non funziona più niente!
Non c'è rispetto per il viaggiatore.
L'impiegato, perché per me era un impiegato, si piegava in avanti e scuoteva la testa, con convinzione.
C'ero solo io che lo guardavo e quindi lo ascoltavo, e la cosa lo incentivava sempre di più.
Anch'io ero un abituè: per quattro anni avevo sempre preso quella carrozza in sosta al sabato sera (era un po' tardi: mia madre brontolava cosa fai a Firenze il sabato pomeriggio, vieni prima, almeno mangi con gli altri!) e quella tiritera sui treni la sentivo spesso: avrei voluto restare in silenzio, fare la viaggiatrice sperduta e solitaria, assaporarmi la sensazione della sorpresa, della novità, dello sbigottimento e anche dell' insicurezza.
Ero allora in bilico tra due sentimenti contrastanti: oscillavo tra una sottile malinconia che mi piaceva anche se mi faceva soffrire e un'allegria smodata da profonda gioia di vivere che mi coglieva a volte di sorpresa nei momenti meno opportuni.
Ma sapevo che tutto si sarebbe svolto come al solito, come in un copione ormai consunto dall'abitudine mi dava noia e magari avrei voluto che il mio dirimpettaio vicino al corridoio, un giovane Studente come me senz'altro, anziché finire le parole incrociate si fosse alzato di botto e avesse detto all'impiegato: “da questa parte si vede un Incidente. E' morto qualcuno sul marciapiede di sinistra” pur di fermare quell'ovvia giaculatoria … sugli orari.
Ma il giovane accavallava le gambe con ostentazione di sicurezza, si stringeva nel fianco la borsa e dopo aver guardato in giro con uno sguardo ironico ma fermissimo sul silenzio, ravvivandosi i capelli lunghi e lisci sulla fronte, riponeva il suo giornaletto di enigmistica nella tasca.
L'impiegato ora guardava pure lui la gente oltre il corridoio ma ad un tratto la carrozza ebbe un leggero sussulto e dolcemente scivolò via, lasciandosi alle spalle la gente, le luci, le pensiline.
Dopo un brusco arresto le carrozze venivano risospinte verso il marciapiedi di partenza per essere aggiunte in cima al treno che frattanto era arrivato dal sud.
Qui si ripeteva la solita scena. La gente che aveva ignorato le carrozze quando erano all'altro lato del marciapiede sembrava improvvisamente impazzita quando le scorgeva in cima al treno.
Ed era tutto un correre, un affannarsi, un gridare.
Di colpo il corridoio si animò e nella penombra fu un continuo spingersi, urtarsi con le valige. Poi improvvisamente la luce. La motrice finalmente attaccata poteva darci luce e calore, pazientemente, in attesa che tutta quella gente si chetasse, trovasse posto, si sistemasse.
Tra tutta la gente abbastanza giovane che si accalcava, io riuscivo a scorgere nel corridoio nella marea che avanzava verso di noi, una strana donnina col cappello di feltro come usavano prima della Guerra le signore di un certo decoro, i capelli bianchi spettinati che le uscivano di sotto la tesa, e due occhietti vivacissimi.
Si precipitò nel nostro scompartimento, occupando il posto vicino a me, con il balzo di un uccellino deciso a tutto e con squittii e gridolini, un poco affannata, faceva cenno al facchino che la raggiunse coi bagagli.
Il trasbordo fu laborioso. C'era posto per tutti ma nessuno si decideva a lasciare il corridoio. Sembrava forse a quella folla rumorosa di staccarsi troppo in fretta dai parenti, dagli amici, dalla città.
Il facchino avanzava a fatica con un valigione dove la donnina in nero avrebbe trovato facilmente posto e altre tre più piccole nell'altra mano. Lei saltava per l'impazienza e l'eccitazione e tutti la guardavano perché all'interno dello scompartimento era rimasta l'unica in piedi e in movimento.
Sapevamo tutti cosa sarebbe successo: eravamo annoiati, tutto sommato anche di questa donnina d'altri tempi: avrebbe licenziato il facchino dopo che questi avesse sistemato i bagagli sulla reticella, si sarebbe seduta sul bordo del divano per prendere fiato, sfilandosi con garbo contenuto il paltò e dopo averlo ripiegato con cura sulle ginocchia, avrebbe detto, guardandosi in giro: “E' forse in ritardo?”.
Invece nulla di tutto questo. Il facchino chiedeva lo scontrino e la Donna non lo trovava. Dapprima rovistò la borsetta tra una quantità inverosimile di cose e fazzoletti: poi fu la volta della sportina nera coi manici di Pelle: tra biscotti, golfini, giornali, ancora niente. Le tasche furono più volte frugate con furia e accanimento, rivoltati i piccoli guanti grigi, ispezionato persino il nastro del cappello.
Ad ogni nuovo tentativo il facchino, taciturno, cambiava il peso del corpo sul piede e noi ce ne stavamo con le game rattrappite per lasciare spazio, ormai presi da questa caccia sempre più Serrata perché l'altoparlante già annunciava la partenza.
L'anziana viaggiatrice intanto che cercava, spiegava che certamente lo scontrino era lì, qui, ovunque affondava la sua manina ossuta; poi passò a cercare di convincere il facchino che i bagagli erano i suoi, certamente non ci sarebbero state storie, poteva raccontare tutto quello che c'era dentro.
E intanto mostrava la carta d'identità, insisteva con l'indirizzo.
Doveva veramente fermarsi a Firenze per lo scontrino ma come poteva fare che sua figlia l'aspettava a Padova ed assolutamente non poteva mancare?
L'ultimo avviso dell'altoparlante convinse il facchino che non c'era tempo da perdere. Riprese su i bagagli e dopo aver salutato con un borbottio indistinto se ne andò.
Il treno si mosse decisamente e la signora un poco placata per il momento, ma rossa in viso e disfatta, si sedette finalmente.
Scuotendo la testa continuava meccanicamente a rovistare, e rigirare, a rimirare la stessa roba, la stessa borsa, le stesse tasche per l'ennesima volta più rassegnata che convinta.
Ad un tratto, quando il treno , dopo aver superato gli scambi con lievi scossoni, aveva già acquistato velocità, un trillo felice: “Eccolo!”. E noi tutti che avevamo distolto lo sguardo da lei , per guardare fuori le luci della città che sfuggivano via, tornammo ad osservare quel viso e ci stupimmo di vederla felice anziché contrariata. “Ecco dove l'avevo messo! Sotto il cinturino dell'orologio! Per non perderlo… ma sono così distratta! Faccio le cose in un certo modo per ricordarmi, poi la distrazione è tale che non me le ricordo più!”
E al nostro sguardo interrogativo ricominciò: “Non è mica l'età: sono proprio distratta, se uno non lo è mai stato, non può sapere cosa sia la distrazione. E'… è…” e si guardava attorno per avere l'unanimità dell'attenzione , fissando ciascuno di noi come un conferenziere premuroso.
“…è come una magia, un sortilegio. Fai una cosa ma è come se fosse un altro a farla.. tu stai a guardare e pensi ecco, questo me lo devo ricordare, lo faccio apposta, poi è solo nebbia!”
“Anch'io sono molto distratto” ammise lo Studente “perdo facilmente le cose, dimentico gli appuntamenti, una volta ho persino scordato un esame. Ho dovuto aspettare la sessione dopo”.
“Questo niente” insisteva la vecchietta con accanimento come per affermare un primato; “figuratevi che una volta dovevo partire: ho messo due calze in una gamba sola: uscivo con una gamba nuda. Me ne sono accorta per le scale, fortuna che avevo ancora tempo!”
L'aria si era riscaldata. Ci guardammo ammiccando con sorrisi divertiti e cortesi, non eravamo più estranei. Si era stabilita una corrente di ilarità irrefrenabile un poco a spese della signora e un poco a spese di noi stessi.
Chi di noi non aveva scordato qualcosa o qualcuno come se non fosse mai esistito?
L'unico che ci guardava con fredda ostentazione e non si univa al coro dei commenti e delle esclamazioni era il signore distinto.
Freddo e distante non si era lasciato coinvolgere da quell'ondata di confidenza e di allegria ma se ne stava appartato e leggermente infastidito e quasi non ci guardava.
La compagnia era diventata decisamente troppo rumorosa per lui, che diamine!
Anche le persone giunte per ultime: una ragazza coi genitori non sapevano trattenersi dal raccontare i casi delle loro distrazioni: appuntamenti a vuoto, cose perse per sempre senza traccia, minestre bruciate, allagamenti di appartamenti…
Io mi divertivo moltissimo: anche se appena iniziato, il viaggio prometteva bene: almeno fino a Bologna me la sarei passata allegramente. Non avrei avuto modo di pensare che quel continuo spostarmi da una città all'altra, quasi una doppia vita stava finendo, che, con la laurea sarebbe finito anche il mio vivere per molti versi impegnato eppure vagabondo di studentessa fuori sede.
Dopo avrei dovuto fermarmi, fare il nido definitivo, scegliere. Non ne vedevo l'ora per un verso, ma per l'altro provavo titubanza e timore.
Il treno cominciò a rallentare e si fermò di botto a Prato, unica fermata di quel direttissimo.
Il signore distinto con gesti lenti e misurati, guardandoci tutti con sussiego come si guardano degli inferiori si alzò e afferrato il soprabito dalla reticella cominciò ad infilarselo lentamente, tra di noi, come uno che non ha fretta, che sa che il treno si ferma diversi minuti, e che domina le sue emozioni.
Ma mentre stava sistemandosi la giacca sotto al soprabito e noi lo guardavamo come affascinati da ogni suo gesto, l'impiegato esclamò con Voce alta e chiara: “Ma questo è il mio cappotto!”
Fu un attimo. Il signore sbalordito si chinò a guardarsi, sfilandosi il soprabito di colpo e afferrato l'altro ancora ripiegato, balzò nel corridoio, sfuggendo alla nostra vista.
Un boato fragoroso, la risata simultanea di sette persone fece voltare tutti quelli che erano nel corridoio. Altri vennero dagli scompartimenti vicini a sbirciare nel nostro e noi come presi da una follia collettiva non sapevamo calmarci e per il singulto del riso ad alcuni vennero perfino le lacrime.
Dopo ci sentimmo ancora più in confidenza riuniti da un sentimento provato tutti nello stesso momento come di liberazione e di felicità. Diventammo un gruppo omogeneo spensierato in viaggio per una meta comune che non conoscevamo ma ci affratellava.
La nostra non era mera conversazione ma un accalorarsi a vicenda per scoprirci gli uni agli altri nei nostri difetti e nelle nostre debolezze. Chi parlava si eccitava nel Racconto chi ascoltava era egualmente accalorato, preso nel vortice di una solidarietà senza eguali.
D'un balzo fummo a Bologna, cavalcando follemente un'Appennino silente col treno che correndo entrava ed usciva dalle gallerie, mai rallentando la sua corsa neppure in prossimità delle piccole stazioni di Vernio, Cantagallo, S. Benedetto Val di Sambro, completamente vuote e solitarie.
Nessuno entrò più nel nostro scompartimento e nessuno ne uscì.
Tutti compreso il capotreno ci presero per una comitiva tanto eravamo affiatati, cordiali, premurosi gli uni con gli altri, contenti di stare assieme.
Eppure eravamo diretti a destinazioni diverse; alcuni di noi, come io stessa, dovevamo stare attenti alla coincidenza del successivo treno per proseguire il viaggio.
Non ci accorgemmo di essere arrivati quando già il treno, superato il Semaforo e gli scambi, si inoltrava per il binario della stazione di Bologna.
Solo allora ci lasciammo e nei saluti incrociati che ci scambiammo frettolosamente gli uni sopra la spalla degli altri, già pronti alla discesa, vedemmo la gentile vecchietta (che era stata la felice catalizzatrice del viaggio) chiederci trillando se ricordavamo il numero del binario della sua coincidenza per Padova, perché lei l'aveva completamente scordato!
Jesse Rossi
(Racconto apparso su Biblos Teller 1)